ciclo di incontri - Novembre2000
Quaderno n. 78
Leggiamo la Scrittura. Genesi e Esodo
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«Ho fatto conoscere il tuo nome e lo farò conoscere» (Gv 17,26) Gesù il rivelatore del Padre

Salvatore Ricciardi


1.  Quando si afferma che Gesù rivela Dio come Padre e si parte da un testo come quello suggerito nel titolo, ci si può trovare collocati in una “precomprensione” della rivelazione, presente nell’ ”immaginario cristiano collettivo”: l’immagine di un Dio truce, vendicativo, bellicoso, del Dio della legge del taglione che ci viene dall’AT viene superata (se non sostituita) dall’immagine di un Dio dolce, paterno (o materno), misericordioso e disponibile, grazie alla rivelazione di Cristo, resa autorevole dal sacrificio della sua vita.

In realtà, Dio è presentato come “Padre” anche nelle Scritture d’Israele. Basterà citare, fra i passi che peraltro non sono numerosi:

-      Sal 68,5-6, dove Dio è definito «padre degli orfani»;

-      Ger 31,9: «sono diventato un padre per Israele».

In entrambi i casi, la paternità di Dio è collegata non con la creazione, ma con il suo intervento a favore dei singoli nel bisogno o del popolo, riscattato dall’esilio. Non è connessa con un’idea di “genitorialità”.

In altri termini, Dio non è padre “perché ci ha creati”, ma perché stabilisce con l’essere umano, il suo popolo, una relazione misericordiosa, dialogica.

2. In secondo luogo, le Scritture d’Israele affermano che Dio rivela il proprio nome. Possiamo citare due testi “sacerdotali”:

-      Gen 17,1: Dio si manifesta ad Abramo come l’Iddio altissimo (‘ani ‘el šaddaj);

-      Es 6,2: Dio si manifesta a Mosè come l’«Eterno» (‘ani jhwh) che si è manifestato ai patriarchi come l’Altissimo.

Tuttavia, questo “nome” dice e non dice ad un tempo: si veda lo «Io sono quello che sono» (o: «sarò») di Es 3,14-15. Perché questo dire e non dire a proposito del nome?

Il nome non è una semplice etichetta; è una componente essenziale della persona, è «l’essere completo della persona concentrato in una parola» (ThWNT, s.v. onoma). Nel nome, cioè nella persona stessa, è racchiuso un potenziale di energia. Pronunciare il nome è mettere in moto quel potenziale, poterne disporre, utilizzarlo per i propri fini. Perciò, il nome di Dio (lo šem jhwh) non può essere abusato (Es 20,7), ma soltanto invocato a scopo cultuale (Es 20,24).

Dio si rivela anche facendo “abitare” il suo nome in qualche luogo da Lui stesso scelto perché venga invocato, anche se in realtà Egli abita “in cielo” (Deut 26,15), anzi: non può essere racchiuso neppure “nei cieli dei cieli” (cfr. 1Re 8,27-31 [D]).

Conoscere il nome di Dio si iscrive dunque nel quadro del dono, non del possesso; della rivelazione, non della conquista, perché Dio resta “‘ani jhwh”, “quel che ha deciso di essere”.

3. La locuzione ‘ani jhwh viene resa nella traduzione greca dell’AT (la LXX) con «ego eimì» e Giovanni mette questa locuzione in bocca a Gesù numerose volte, per cui lo “ego eimìè la prima pista della nostra riflessione.

In una serie numerosa di passi, Gesù dice «io sono» aggiungendo un predicato nominale: il Messia (4,26), la luce del mondo (8,12; 9,5), la porta dell’ovile (10,7), il buon pastore (10,11), la resurrezione e la vita (11,25), la via, la verità, la vita (14,6), la vera vite (15,1.5).

È da notare che Giovanni pone questa locuzione esclusivamente sulla bocca di Gesù. Per esempio, quando riferisce la testimonianza del Battista (1,19ss), il verbo è usato da quest’ultimo per dire chi egli «non è», ma quando dichiara di essere «la voce di uno che grida…» (1,23), il testo greco reca semplicemente «io la voce» [ego phonè]. In questo modo, Giovanni pone Gesù su un piano analogo a quello di Dio.

Ma c’è di più.

Il brano di Es 3,14-15 può essere collegato a:

-      Deut 32,39: «ora vedete che io solo sono [sott.: Dio] e che non v’è altro dio fuori di me»;

-      Is 43,10-11: «… Io, io sono [sott.: Dio] e fuori di me non c’è salvatore».

«Sono io»: semplicemente, senza predicato nominale, basta a identificare Dio. In Giovanni, Gesù usa più volte la medesima locuzione:

-      6,20: «sono io, non temete» (ai discepoli che lo vedono camminare sull’acqua);

-      18,5.7: «sono io» (ai soldati venuti per arrestarlo);

-      8,24.28: dove il credere (o non credere), il riconoscere (o non riconoscere) pone i giudei di fronte alla vita (o alla morte);

-      8,58: alla conclusione della stessa polemica: «prima che Abramo fosse nato [genesthai] io sono [ego eimì]» (notare l’uso di due verbi diversi).

In quest’ultima affermazione, Gesù esprime la consapevolezza della propria identità e della propria trascendenza rispetto al tempo.

Ciò dunque che le Scritture d’Israele attribuiscono a Dio, qui è attribuito al Figlio, che è “uguale” a Lui (5,18).

4. Continuando a seguire quasi esclusivamente la traccia del IV Vangelo, troviamo una seconda pista di riflessione sull’uso di logos.

Logos nella LXX traduce soprattutto l’ebraico dabar, che significa “parola”, e include quanto di forza sta dietro alla parola stessa, quale che sia la sua intenzione remota, il suo senso profondo. La parola afferra, dà sofferenza e gioia, non ci si può sottrarre ad essa (cfr. soprattutto Ger 20,7-9.11-13). È una parola che produce la vita (Ez 37,4).

Gesù, in quanto «Amen» di Dio (Ap 3,14), porta la parola di Dio e dà un nuovo comandamento (Gv 13,34). Di più: Gesù è la Parola. Il suo insegnamento non sta solo in ciò che dice, ma anche in ciò che è. Sta nel suo concreto esistere come carne [sarx] (Gv 1,14). La Parola diventa visibile, udibile, palpabile (1Gv 1,1-3), perché entra nel contingente, nella storia, e dà luogo alla kainé ktisis («nuova creazione», 2Cor 5,17). Gesù è la Parola e la Parola è Gesù. Logos e sarx coincidono. Nella sarx si rende visibile la gloria di Dio (Gv 1,14.51; 2,11).

Di questa Parola si dice che «era con Dio» ed «era Dio». Quindi, era “preesistente” all’incarnazione di Gesù. Ma Giovanni non si interessa alla preesistenza in maniera speculativa: vi risale partendo dalla sarx del Cristo, che lo ha fatto visibile. L’identità tra sarx e logos è ulteriormente sottolineata da «en arché» (1,1), con cui deliberatamente Giovanni riecheggia Gen 1,1.

Siamo nel quadro della identificazione di Gesù con Dio (cfr. anche 14,9: «chi ha visto me ha visto il Padre», 10,30: «io e il Padre siamo uno»).

5. La terza pista di riflessione (più breve)  si riferisce al fatto che la Parola «ha piantato fra noi la sua tenda» (Gv 1,14).

Šekinah” (nella LXX: skene) è la tenda: dimora caratteristica dei patriarchi, dei nomadi del deserto, dei pastori dietro alle greggi, dei soldati nell’accampamento. Il termine però non sottolinea necessariamente la precarietà della tenda, rispetto alla casa in muratura: significa “abitazione”, e può anche indicare l’”abitazione di Dio fra gli uomini”, cioè il Tabernacolo, o “tenda del convegno”.

Che la Parola “abbia piantato la sua tenda” fra noi [eskenosen], che “si sia accampata”, sottolinea ad un tempo:

-      il discendere della Parola fra la sua preesistenza e la sua esaltazione;

-      l’irruzione del tempo di Dio (eternità) nel tempo umano.

Gesù è dunque il luogo della rivelazione di Dio.

Se aggiungiamo che, nel dibattito che segue la purificazione del Tempio, Gesù afferma che il Tempio distrutto può essere ricostruito in tre giorni, e «parlava del Tempio del suo corpo» (Gv 2,20-21), abbiamo un’ulteriore conferma che Gesù è, dall’incarnazione in poi, il solo e unico luogo della presenza di Dio, con la conseguente eliminazione di tutti gli altri pretesi “luoghi santi”.

Chi comprende e crede questo ha il diritto di «diventare figlio di Dio» (1,12) e di essere considerato «amico di Gesù» (15,15).

6. Un’ultima nota vorrei aggiungere, nel quadro generale di questo ciclo, che prende l’Esodo come paradigma.

Si può affermare, forse, che Gesù dà a se stesso e alla sua vita un’impronta di provvisorietà, si pone sotto il segno dell’esodo.

Innanzitutto, non è sulla terra “di suo”, ma come inviato dal Padre. Questa nota risuona in 3,17 (mandato non per giudicare), in 4,34 (mandato per fare la volontà del Padre), in 7,16 (portatore della dottrina di Colui che l’ha mandato), in 17,21 (la testimonianza unitaria dei discepoli potrà far sì che il mondo creda a Dio che lo ha mandato).

In secondo luogo, l’accenno al piantare la tenda (1,14): benché non vada sottolineata eccessivamente la precarietà della medesima, questa non va neanche trascurata.

Infine, la scena della “lavanda dei piedi”, che in Giovanni sostituisce l’istituzione della Santa Cena, si apre con la dichiarazione della consapevolezza di Gesù che «da Dio era venuto e a Dio se ne tornava» (13,3).

7. Gesù è dunque pienamente il rivelatore di Dio. Le Scritture d’Israele parlano di Lui in vista della salvezza (Gv 5,37-39), perché Egli rende visibile il volto di Dio.

Di quel Dio che «nessuno ha mai conosciuto», ma del quale Gesù “ha fatto l’esegesi”, secondo la conclusione del prologo giovanneo (1,18).

 

Conversazione tenuta presso la Fondazione Serughetti La Porta il 30 ottobre 2000

Testo redatto dall’Autore

 

 

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