1. Quando si afferma che Gesù rivela Dio come Padre e
si parte da un testo come quello suggerito nel titolo, ci si può trovare
collocati in una “precomprensione” della rivelazione, presente nell’
”immaginario cristiano collettivo”: l’immagine di un Dio truce,
vendicativo, bellicoso, del Dio della legge del taglione che ci viene dall’AT
viene superata (se non sostituita) dall’immagine di un Dio dolce, paterno (o
materno), misericordioso e disponibile, grazie alla rivelazione di Cristo, resa
autorevole dal sacrificio della sua vita.
In realtà, Dio
è presentato come “Padre” anche nelle Scritture d’Israele. Basterà
citare, fra i passi che peraltro non sono numerosi:
-
Sal 68,5-6, dove Dio è definito «padre degli orfani»;
-
Ger 31,9: «sono diventato un padre per Israele».
In entrambi i
casi, la paternità di Dio è collegata non con la creazione, ma con il suo
intervento a favore dei singoli nel bisogno o del popolo, riscattato
dall’esilio. Non è connessa con un’idea di “genitorialità”.
In altri termini,
Dio non è padre “perché ci ha
creati”, ma perché stabilisce con l’essere umano, il suo popolo, una
relazione misericordiosa, dialogica.
2. In secondo luogo, le Scritture d’Israele affermano che Dio
rivela il proprio nome. Possiamo citare due testi “sacerdotali”:
-
Gen 17,1: Dio si manifesta ad Abramo come l’Iddio altissimo (‘ani ‘el šaddaj);
-
Es 6,2: Dio si manifesta a Mosè come l’«Eterno» (‘ani
jhwh) che si è manifestato ai patriarchi come l’Altissimo.
Tuttavia, questo
“nome” dice e non dice ad un tempo: si veda lo «Io sono quello che sono»
(o: «sarò») di Es 3,14-15. Perché questo dire e non dire a proposito del
nome?
Il nome non è
una semplice etichetta; è una componente essenziale della persona, è «l’essere
completo della persona concentrato in una parola» (ThWNT, s.v. onoma).
Nel nome, cioè nella persona stessa, è racchiuso un potenziale di energia.
Pronunciare il nome è mettere in moto quel potenziale, poterne disporre,
utilizzarlo per i propri fini. Perciò, il nome di Dio (lo šem
jhwh) non può essere abusato (Es 20,7), ma soltanto invocato a scopo
cultuale (Es 20,24).
Dio si rivela
anche facendo “abitare” il suo nome in qualche luogo da Lui stesso scelto
perché venga invocato, anche se in realtà Egli abita “in cielo” (Deut
26,15), anzi: non può essere racchiuso neppure “nei cieli dei cieli” (cfr.
1Re 8,27-31 [D]).
Conoscere
il nome di Dio si iscrive dunque nel quadro del dono, non del possesso; della
rivelazione, non della conquista,
perché Dio resta “‘ani jhwh”,
“quel che ha deciso di essere”.
3. La locuzione ‘ani jhwh
viene resa nella traduzione greca dell’AT (la LXX) con «ego
eimì» e Giovanni mette questa locuzione in bocca a Gesù numerose volte,
per cui lo “ego eimì” è la prima pista
della nostra riflessione.
In una serie
numerosa di passi, Gesù dice «io sono» aggiungendo un predicato nominale: il
Messia (4,26), la luce del mondo (8,12; 9,5), la porta dell’ovile (10,7), il
buon pastore (10,11), la resurrezione e la vita (11,25), la via, la verità, la
vita (14,6), la vera vite (15,1.5).
È da notare che
Giovanni pone questa locuzione esclusivamente sulla bocca di Gesù. Per esempio,
quando riferisce la testimonianza del Battista (1,19ss), il verbo è usato da
quest’ultimo per dire chi egli «non è», ma quando dichiara di essere «la
voce di uno che grida…» (1,23), il testo greco reca semplicemente «io la
voce» [ego phonè]. In questo modo,
Giovanni pone Gesù su un piano analogo a quello di Dio.
Ma c’è di più.
Il brano di Es
3,14-15 può essere collegato a:
-
Deut 32,39: «ora vedete che io solo sono [sott.: Dio] e che non v’è altro
dio fuori di me»;
-
Is 43,10-11: «… Io, io sono [sott.: Dio] e fuori di me non c’è salvatore».
«Sono io»:
semplicemente, senza predicato nominale, basta a identificare Dio. In Giovanni,
Gesù usa più volte la medesima locuzione:
-
6,20: «sono io, non temete» (ai discepoli che lo vedono camminare
sull’acqua);
-
18,5.7: «sono io» (ai soldati venuti per arrestarlo);
-
8,24.28: dove il credere (o non credere), il riconoscere (o non riconoscere)
pone i giudei di fronte alla vita (o alla morte);
-
8,58: alla conclusione della stessa polemica: «prima che Abramo fosse nato [genesthai]
io sono [ego eimì]» (notare l’uso di due verbi diversi).
In quest’ultima
affermazione, Gesù esprime la consapevolezza della propria identità e della
propria trascendenza rispetto al tempo.
Ciò
dunque che le Scritture d’Israele attribuiscono a Dio, qui è attribuito al
Figlio, che è “uguale” a Lui
(5,18).
4. Continuando a seguire quasi esclusivamente la traccia del IV
Vangelo, troviamo una seconda pista di
riflessione sull’uso di logos.
Logos
nella LXX traduce soprattutto l’ebraico dabar,
che significa “parola”, e include quanto di forza sta dietro alla parola
stessa, quale che sia la sua intenzione remota, il suo senso profondo. La parola
afferra, dà sofferenza e gioia, non ci si può sottrarre ad essa (cfr.
soprattutto Ger 20,7-9.11-13). È una parola che produce la vita (Ez 37,4).
Gesù, in quanto
«Amen» di Dio (Ap 3,14), porta la parola di Dio e dà un nuovo comandamento (Gv
13,34). Di più: Gesù è la Parola.
Il suo insegnamento non sta solo in ciò che dice, ma anche in ciò che è. Sta
nel suo concreto esistere come carne [sarx] (Gv 1,14). La Parola diventa visibile, udibile, palpabile (1Gv
1,1-3), perché entra nel contingente, nella storia, e dà luogo alla kainé
ktisis («nuova creazione», 2Cor 5,17). Gesù è la Parola e la Parola è
Gesù. Logos e sarx
coincidono. Nella sarx si rende
visibile la gloria di Dio (Gv 1,14.51; 2,11).
Di questa Parola
si dice che «era con Dio» ed «era Dio». Quindi, era “preesistente”
all’incarnazione di Gesù. Ma Giovanni non si interessa alla preesistenza in
maniera speculativa: vi risale partendo dalla sarx del Cristo, che lo ha fatto visibile. L’identità tra sarx
e logos è ulteriormente sottolineata da «en arché» (1,1), con cui deliberatamente Giovanni riecheggia Gen
1,1.
Siamo
nel quadro della identificazione di Gesù con Dio (cfr. anche 14,9: «chi ha
visto me ha visto il Padre», 10,30: «io e il Padre siamo uno»).
5. La terza pista di
riflessione (più breve) si
riferisce al fatto che la Parola «ha piantato fra noi la sua tenda» (Gv
1,14).
“Šekinah”
(nella LXX: skene) è la tenda: dimora
caratteristica dei patriarchi, dei nomadi del deserto, dei pastori dietro alle
greggi, dei soldati nell’accampamento. Il termine però non sottolinea
necessariamente la precarietà della tenda, rispetto alla casa in muratura:
significa “abitazione”, e può anche indicare l’”abitazione di Dio fra
gli uomini”, cioè il Tabernacolo, o “tenda del convegno”.
Che la Parola
“abbia piantato la sua tenda” fra noi [eskenosen], che “si sia accampata”, sottolinea ad un tempo:
-
il discendere della Parola fra la sua preesistenza e la sua esaltazione;
-
l’irruzione del tempo di Dio (eternità) nel tempo umano.
Gesù
è dunque il luogo della rivelazione di Dio.
Se aggiungiamo
che, nel dibattito che segue la purificazione del Tempio, Gesù afferma che il
Tempio distrutto può essere ricostruito in tre giorni, e «parlava del Tempio
del suo corpo» (Gv 2,20-21), abbiamo un’ulteriore conferma che Gesù è,
dall’incarnazione in poi, il solo e unico luogo della presenza di Dio, con la
conseguente eliminazione di tutti gli altri pretesi “luoghi santi”.
Chi comprende e
crede questo ha il diritto di «diventare figlio di Dio» (1,12) e di essere
considerato «amico di Gesù» (15,15).
6. Un’ultima nota vorrei aggiungere, nel quadro generale di questo
ciclo, che prende l’Esodo come paradigma.
Si può
affermare, forse, che Gesù dà a se stesso e alla sua vita un’impronta di
provvisorietà, si pone sotto il segno
dell’esodo.
Innanzitutto, non
è sulla terra “di suo”, ma come inviato
dal Padre. Questa nota risuona in 3,17 (mandato non per giudicare), in 4,34
(mandato per fare la volontà del Padre), in 7,16 (portatore della dottrina di
Colui che l’ha mandato), in 17,21 (la testimonianza unitaria dei discepoli
potrà far sì che il mondo creda a Dio che lo ha mandato).
In secondo luogo,
l’accenno al piantare la tenda
(1,14): benché non vada sottolineata eccessivamente la precarietà della
medesima, questa non va neanche trascurata.
Infine, la scena
della “lavanda dei piedi”, che in Giovanni sostituisce l’istituzione della
Santa Cena, si apre con la dichiarazione della consapevolezza di Gesù che «da
Dio era venuto e a Dio se ne tornava» (13,3).
7. Gesù è dunque pienamente il rivelatore di Dio. Le Scritture d’Israele parlano di Lui in vista
della salvezza (Gv 5,37-39), perché Egli rende visibile il volto di Dio.
Di quel Dio che
«nessuno ha mai conosciuto», ma del quale Gesù “ha fatto l’esegesi”,
secondo la conclusione del prologo giovanneo (1,18).
Conversazione
tenuta presso la Fondazione Serughetti La Porta il 30 ottobre 2000
Testo
redatto dall’Autore
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